Diffamazione Art.595 c.p.
L’INQUADRAMENTO GIURIDICO DELLA DIFFAMAZIONE
A livello normativo il primo riferimento alla diffamazione è quello del reato di cui all’art. 595 c.p., che la definisce alla stregua di una “lesione della reputazione”.
La norma de qua disciplina diversi profili con differenti sanzioni: l’ipotesi di diffamazione semplice è punita con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1.032 euro (comma 1); se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a 2 anni, ovvero della multa fino a 2.065 euro (comma 2); se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità (ivi compresa la diffamazione a mezzo social network), ovvero in atto pubblico, la pena è la reclusione da 6 mesi a 3 anni o la multa non inferiore a 516 euro.
Una condotta diffamatoria illecita comporta, come accennato, una lesione della reputazione, alla quale consegue un danno suscettibile di risarcimento (cd. responsabilità extracontrattuale).
GLI STRUMENTI DI TUTELA CONTRO LE CONDOTTE DIFFAMATORIE
Al diffamato è concessa una duplice alternativa da perseguire per vedersi ristorare il danno subito. La prima, circoscrivibile alla sede penale, è quella della denuncia-querela: la persona offesa è infatti tenuta a sporgere denuncia-querela entro i 3 mesi dalla notizia del fatto, servendosi nei casi più complessi anche di un avvocato penalista che esponga adeguatamente i profili fattuali e giuridici nell’ottica del futuro risarcimento del danno.
In alternativa, il diffamato può agire direttamente in sede civile citando in giudizio il diffamante. In tal caso il termine è ampiamente più lungo rispetto al penale in quanto l’illecito civile extracontrattuale si prescrive in cinque anni ed inoltre, prima del vero e proprio processo, prenderà obbligatoriamente avvio una fase di mediazione resa obbligatoria dall’art. 5 del D.Lgs. 28/2010, sede in cui si potrà altresì addivenire ad una soluzione consensuale che definisca la controversia.
La soluzione più conveniente tra quelle profilate è individuabile solo nel caso concreto con l’ausilio di un legale che valuti accuratamente le peculiarità della vicenda.
IL DANNO E’ RISARCIBILE ??? E COME PROVARLO IN GIUDIZIO
Una condotta diffamatoria fa sorgere anzitutto un danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.). Quest’ultimo oggi viene interpretato come una categoria ampia ed omnicomprensiva, all’interno della quale non è possibile ritagliare ulteriori sottocategorie, se non con valenza meramente descrittiva e nel quale confluiscono tutte le voci afferenti la dimensione personale dell’individuo (danno morale, danno esistenziale ecc.). Rilevano quindi a questo proposito anche le sofferenze interiori (turbamento, disagio, imbarazzo, ancorché transitorio) patite a seguito della diffusione della notizia diffamatoria. In quest’ipotesi la prova del danno si risolve nella dimostrazione di due condizioni, cioè l’esistenza di un fatto produttivo di conseguenze pregiudizievoli e l’idoneità del medesimo ad ingenerare una ripercussione “dolorosa” nella sfera personale del soggetto leso.
In forza dei principi espressi dalla Cassazione a Sezioni Unite (Cass. SSUU sent. 26972/2008), il danno non patrimoniale costituisce danno conseguenza che deve essere allegato e provato (non è quindi un danno in re ipsa). All’uopo si può far ricorso alla prova presuntiva, che potrà costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri.
IL DANNO ALL’IMMAGINE CAUSATO DALLA DIFFAMAZIONE
Nel danno non patrimoniale in esame è annoverata anche la voce suppletiva del cd danno all’immagine, cioè quello che lede la reputazione e l’identità personale di un individuo, ovverosia l’insieme degli attributi che identificano un determinato soggetto nel contesto sociale o professionale di riferimento.
Il diritto alla reputazione professionale deve essere tenuto distinto dal diritto alla reputazione personale, poiché nel primo caso la lesione provoca un discredito commerciale del soggetto esclusivamente nel settore lavorativo in cui opera, mentre nel secondo caso si ha una lesione della sua dignità e del prestigio di cui ogni persona gode indipendentemente dall’attività che svolge.
Infine, sempre con riferimento all’ipotesi di diffamazione a mezzo stampa, l’art. 12 Legge sulla Stampa del 1948 prevede che il danneggiato ha diritto, oltre al risarcimento del danno non patrimoniale, anche a una ulteriore somma a titolo di riparazione pecuniaria (Cass. Civ., sez. III, sent. n. 29640/17). Tale somma viene solitamente liquidata rapportandola in percentuale alla somma che viene riconosciuta a titolo di risarcimento.
LA QUANTIFICAZIONE DEI DANNI
A quanto può ammontare concretamente il danno da diffamazione?
A questa domanda ha risposto l’Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano, organismo giuridico che orienta i magistrati nella quantificazione del danno tramite la redazione di apposite tabelle.
Secondo l’Osservatorio la diffamazione a mezzo stampa può dare origine a un danno risarcibile per un valore che può variare da 1.000 a oltre 50.000 euro, a seconda della gravità della situazione.
In particolare, la diffamazione può essere di intensità tenue (e dare origine a un danno fino a 10.000 euro), modesta (risarcimento fino a 20.000 euro), media (fino a 30.000 euro), elevata (fino a 50.000 euro) o eccezionale (con risarcimenti superiori ai 50.000 euro).
Per favorire l’inquadramento di ogni fattispecie concreta in una delle suddette fasce di gravità, l’Osservatorio ha indicato alcuni criteri che consentono di caratterizzare con sufficiente oggettività il singolo episodio di diffamazione a mezzo stampa. Tali criteri sono: notorietà del soggetto diffamante e del soggetto diffamato; tenuità o gravità dell’offesa; diffusione del periodico stampato e conseguente risonanza mediatica dell’evento; ripetitività dell’evento; eventuale condotta riparatoria posta in essere dal diffamante.